Il 31 maggio le sezioni unite della corte di Cassazione si esprimeranno in merito al commercio delle infiorescenze di Cannabis Sativa L. e ai limiti di THC da tenere in considerazione dopo aver raccolto.

 

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Canapicoltori e commercianti attendono frementi l'esito di questo confronto, di cui prima è il caso di chiarire un paio di aspetti salienti, ad esempio la natura della canabis sativa come intesa in questo caso. Non si parla infatti di una sostanza stupefacente, ma di un prodotto agricolo-industriale ed esistono tre norme a chiarire questo punto:

Queste impostazioni di livello sovranazionale sono confermate dalla L. n. 242/2016, che reca norme per il sostegno e la promozione della coltivazione e della filiera della canapa (Cannabis sativa L.), precisando tale “legge si applica alle coltivazioni di canapa delle varieta’ ammesse iscritte nel Catalogo comune delle varieta’ delle specie di piante agricole, ai sensi dell’articolo 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002, le quali non rientrano nell’ambito di applicazione del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309”.

È importante riflettere sul significato di filiera e canapa industriale stessa per comprendere la logica di quello che sta accadendo, considerando anche alcune recenti sentenze della corte di cassazione.

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la pianta di canapa industriale proveniente da varietà certificate e con valori di THC inferiori allo 0,6% non è una droga.
Viceversa in assenza di uno dei due requisiti risulta applicabile il DPR 309/1990 per coloro che ne facciano commercio o utilizzo, restando esclusa la responsabilità del solo agricoltore ai sensi dell’art. 4 della L. n. 242/2016 che abbia rispettato le prescrizioni di legge.

 

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