Nel 1984, Norman Zinberg scrive che: “l'effetto farmacologico della sostanza può essere messo in secondo piano rispetto alle influenze delle variabili del set e del setting” (Zinberg; in Bertolazzi 2008, Sociologia della droga, un'introduzione, p.119). Con set si intende una serie di variabili soggettive quali aspettative, attitudini, disposizioni interiori e credenze sulle droghe, sul loro valore e sugli effetti conseguenti. Il setting, invece, è dato dal contesto in cui avviene l'uso di sostanze e si riferisce alle situazioni ambientali in cui si verifica l'assunzione (es. in gruppo o individuale; in casa o in luoghi pubblici) e, più in generale, a variabili che comprendano il contesto sociale e culturale di riferimento (rappresentazioni sociali, morali, politiche e status giuridico del consumo di droghe).
Rispetto al consumo ricreativo (illegale o meno) di cannabinoidi, lo studioso mette in luce come la pratica risulti ben meno ritualizzata rispetto agli anni '60, essa “avviene in un'ampia varietà di setting e circostanze, come prima di andare a vedere un film, durante una festa […] I consumatori possono trovarsi a fumare soli a casa o unirsi ai loro amici” (ivi). Così emerge la “flessibilità” dei rituali di consumo, che per Zinberg deriva da alcuni fattori principali: la natura farmacologica della sostanza (dagli effetti psicotropi moderati e limitati nel tempo), lo status della sostanza e del suo uso, formulati sulla base delle credenze collettive e delle rappresentazioni sociali della cannabis (ibidem).
Il consumo di marijuana a scopo terapeutico è per ovvi motivi ben più “ritualizzato” rispetto alla suddetta flessibilità dei setting ricreativi. Eppure assistiamo, nello sforzo del legislatore italiano, all'ampliarsi della tavolozza di possibilità per il paziente in cura domiciliare con cannabinoidi. Il contesto familiare di casa propria, in contrasto con l'ambiente asettico e dispersivo di una clinica, può avere discreti riscontri positivi sulla psiche e dunque sulla terapia dei soggetti.
Man mano che, dopo la demonizzazione di metà novecento, la marijuana è tornata a essere concepita come qualcosa di meno alieno, pericoloso e più “normale”, ossia legato alla vita di ogni giorno, il suo consumo sembra essersi fatto più controllato e conciliabile con gli stili di vita moderni. Probabilmente la consapevolezza di trovarsi di fronte ad una sostanza dalle proprietà medicamentose, prima ancora che euforizzanti, sta portando i diversi target della cannabis verso un nuovo approccio con la pianta, paradossalmente simile a quello rituale degli antichi insegnamenti asiatici.
Il paziente che si avvicina per la prima volta alla terapia con cannabinoidi lo farà, forse, con maggiore consapevolezza, determinata dalla secolarizzazione del dibattito in merito alle droghe leggere; o magari egli sarà meno consapevole di adesso, proprio per il lento sopirsi delle paure e dei preconcetti.
In ogni caso, la consapevolezza, nella disposizione e nelle aspettative dell'assunzione (quello che abbiamo in precedenza definito come set), può fare la differenza in merito a qualità ed efficacia della terapia. Trattandosi di cure sperimentali, la risposta del paziente si fa più che mai essenziale per compilare delle posologie soddisfacenti ed efficaci.
La “consapevolezza” e l'autocontrollo sono caratteristiche essenziali per chi si avvicini all'uso della marijuana, sia con scopi terapeutici che ricreativi. Tale condizione appare più semplice da raggiungere, quando politiche e letture sociali della sostanza rientrano in un quadro di avvicinamento concettuale tra droga e farmaco; quando cioè il fruitore sia in grado di tenere in considerazione gli effetti di grado farmaceutico della marijuana e i possibili risvolti dei suoi, pur blandi, effetti psicotropi.
Trackbacks/Pingbacks