Soprattutto nella seconda metà del secolo l'intervento politico in merito ad uso e abuso di marijuana, terapeutico o voluttuario che fosse, si è fatto pervasivo, adottando dapprima e per lungo tempo misure di stampo proibizionista, per abbracciare nuove soluzioni e aperture solo intorno agli anni '70. Questo periodo ha inciso non poco sull'opinione pubblica, sulla percezione sociale della sostanza e sugli stili di consumo legati a essa, definendo una particolare immagine della cannabis, etichettata come “droga” e vista con diffidenza e preoccupazione. I “rischi” del consumo di ganja si sono prepotentemente fatti strada nell'agenda politica mondiale e hanno prodotto pontificazioni di ogni genere, la maggior parte delle volte confutate. La più emblematica tra queste è la teoria del passaggio, che ipotizza un legame tra la marijuana ed altre droghe pesanti, come l'eroina. Questa ha sostenuto la dialettica proibizionista per anni, pur se smentita svariate volte, fin dall'inizio.

A oggi la cannabis è una delle sostanze più consumate al mondo e il controllo statale e sovrastatale, sempre di più, tende ad adottare soluzioni depenalizzanti o legalizzanti, sia per l'uso terapeutico che per quello ricreativo. Alcuni casi, come la Svezia, fanno eccezione, e altri, come l'Olanda, precorrono i tempi rispetto al resto del continente; taluni, come l'Italia, fanno da fanalino di coda, ma con punte di notevole eccentricità.

Possiamo individuare nella diade semantica droga-farmaco un elemento utile per ricostruire la storia delle rappresentazioni politiche e sociali della cannabis. I diversi modi di concepire la sostanza hanno prodotto mutamenti e sovrapposizioni di senso tra questi due concetti, che orientano le nostre riflessioni.

Dunque vediamo che, in epoca premoderna, droga e farmaco non sembrano essere così distinti nella percezione comune e nella ricerca; da tale sovrapposizione semantica deriva un'assenza di giudizio morale sul suo utilizzo, che viene semplicemente declinato in molteplici applicazioni e usi. Paracelso (1493-1541), medico e alchimista svizzero, scrisse che “tutto è veleno e nulla esiste senza veleno; solo la dose fa in modo che il veleno non faccia effetto” (Verga 2008, pp.341-3); questo genere di consapevolezza sembra permeare e sorreggere la visione della marijuana prima del novecento. L'era del proibizionismo rappresenta come una sorta di medioevo nel millenario rapporto dell'uomo con la canapa, ma senza risvolti positivi come l'arte amanuense. La droga diviene qualcosa di malefico e da combattere mentre si allontana dal concetto di farmaco ed assume rilevanza maggiore di esso nel definire la cannabis. Il demone della marijuana va così delineandosi col supporto dei media e di una buona dose di ignoranza e xenofobia.

La rivalutazione della sostanza avviene, a partire dagli anni '70, grazie a diverse forze congiunte: la ricerca scientifica, che chiarisce dinamiche, composizione e meccanismi d'azione dei cannabinoidi; la presa di coscienza sociale circa i falsi miti acquisiti durante gli anni precedenti; il ripensamento in merito a certe politiche proibizioniste. Di qui i concetti di droga e farmaco sembrano riavvicinarsi e i risvolti psicotropi nell'assunzione della cannabis non appaiono più esclusivamente come un male da arginare, ma, nuovamente, come parte integrante di una terapia.